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  • Caffeina

    Avete mai bevuto un caffè?
    Lo so… una domanda del genere rasenta l’eresia per un italiano che si rispetti. Il caffè, dopotutto, non è solo una bevanda: è un rito quotidiano, una tradizione, una parte del nostro DNA culturale.

    È anche una delle bevande più consumate al mondo, tanto da aver attirato l’interesse di scienziati di ogni latitudine. Il risultato? Una letteratura scientifica vastissima, ricca di studi che ne esaltano tanto gli effetti positivi quanto quelli potenzialmente negativi.

    Eppure, quando si parla di caffeina e dimagrimento, vi invito a pazientare un momento: prima è necessario fare chiarezza.
    Non ditemi che non siete curiosi di scoprire che cosa state realmente assumendo ogni mattina, ogni pomeriggio, ogni sera… praticamente da una vita!

    Pensate che i primi studi sistematici sulla caffeina risalgono agli inizi del Novecento — una longevità che pochi altri composti bioattivi possono vantare.

    Il caffè tostato è una miscela incredibilmente complessa, contenente oltre 1000 composti bioattivi. A questi sono attribuiti numerosi effetti benefici: antiossidanti, antiinfiammatori, antifibrotici, antitumorali…

    Sì, non mancano nemmeno gli studi che evidenziano potenziali rischi per la salute. Ma niente panico: nel bilancio complessivo, la ricerca scientifica sembra promuovere il caffè con un sorriso di approvazione.

    Ed eccoci al cuore di questo primo paragrafo.

    Le principali sostanze bioattive del caffè sono tre: la caffeina, gli acidi clorogenici e i diterpeni (cafestol e kahweol).

    Tuttavia, la composizione esatta di questo “cocktail” naturale varia enormemente: dipende dalla specie della pianta, dal grado di tostatura, dal metodo di preparazione, dalla macinatura e persino dal tipo di infusione.
    Un caffè non è mai uguale a un altro, come ogni intenditore sa bene.

    Arrivati fin qui, forse avete già intuito il punto:
    caffè e caffeina non sono affatto sinonimi.

    Il caffè è semplicemente la fonte più diffusa di caffeina: circa il 71% dell’assunzione totale deriva da questa bevanda. Il 16% proviene dalle bibite analcoliche (come la cola o i celebri energy drink), e il 12% dal tè.

    In Europa, la caffeina si consuma principalmente attraverso il caffè — tranne che in Irlanda e Inghilterra.
    Indovinate da dove arriva lì la principale fonte di caffeina? Dal tè, ovviamente.

    Come? Il tè contiene caffeina?

    Eh già. Quella che chiamate “teina” altro non è che caffeina: stesso composto, due nomi diversi.
    Ricordate quelle pubblicità degli anni ’90, con ragazzini sorridenti che promuovevano tè alla pesca o al limone ricchi di “teina”? Bene: la “teina” tanto celebrata era semplicemente caffeina — la sostanza psicostimolante più consumata al mondo.

    Tutti questi nomi vi stanno confondendo? Se volete fare davvero i precisi, potete chiamarla con il suo nome chimico: 1,3,7-Trimethylxanthine.

    La caffeina è presente nelle foglie e nei frutti di oltre 60 piante diverse.

    In Europa, il consumo medio negli adulti (18-65 anni) varia dai 37 ai 319 mg al giorno.

    Negli Stati Uniti, oltre l’85% degli adulti consuma caffeina regolarmente, soprattutto sotto forma di caffè.

    E la Finlandia? Si guadagna il titolo di nazione campione di consumo: pensate, quasi 10 kg di caffè a testa ogni anno!

    A questo punto la domanda nasce spontanea:
    quanta caffeina si nasconde davvero nelle bevande e negli alimenti che consumiamo ogni giorno?

    Il motivo per cui troviamo la caffeina aggiunta a cibi e bevande che, in natura, ne sarebbero privi è semplice: sfruttare i suoi effetti stimolanti. La caffeina, infatti, è capace di favorire l’eccitazione, aumentare la prontezza mentale, migliorare l’energia e persino sollevare l’umore — gli stessi effetti che ne fanno una sostanza tanto amata da studenti e lavoratori di ogni parte del mondo.

    Effetti caffeina

    La caffeina è un connubio affascinante di effetti fisici e psico-fisici.

    Forse è proprio per questo che, oltre a essere una delle sostanze più studiate al mondo, è diventata anche uno dei più famosi “rimedi della nonna”, questa volta con il supporto di solide evidenze scientifiche.

    Devi uscire ma ti senti addosso la stanchezza? Basta un po’ di caffeina, e la tua vigilanza si riattiva. Ti migliora l’umore, aumenta la consapevolezza, affina l’attenzione e ti rende anche più rapido nelle decisioni.

    Almeno, fino a un certo punto.
    Perché se è vero che la caffeina può migliorare il processo decisionale e la capacità di problem solving, la ricerca su questo fronte è ancora in parte controversa.

    Sappiamo però con certezza che attenzione, vigilanza e tempo di reazione migliorano già con dosaggi che si aggirano tra 0,5 e 4 mg per chilogrammo corporeo.

    Il punto chiave è che gli effetti della caffeina sono dose-dipendenti: a basse dosi riduce l’ansia e potenzia la percezione del piacere, mentre con dosaggi più elevati possono emergere ansia, agitazione e nervosismo.

    Questo andamento non è casuale, anzi. Ci viene spiegato già nel 1908 da Yerkes e Dodson: basse dosi di eccitazione fisiologica si associano a prestazioni scarse, un aumento moderato migliora le performance, ma un eccesso di eccitazione le fa crollare di nuovo. La caffeina, inutile dirlo, non fa eccezione.

    Dosare correttamente questa sostanza diventa allora fondamentale: caricare troppo, invece di trasformarti in una macchina da guerra, potrebbe trasformarti in un fascio di nervi tremolante e confuso.

    Arrivare a una gara imbottiti di caffeina al punto da tremare e avere il cuore in gola non solo è inutile: è dannoso. La prestazione andrebbe incontro a un inesorabile tracollo.

    Quindi no, più pastiglie non equivalgono a migliori risultati.
    Anzi, ti dirò di più: esiste un errore ancora più sottile, ma altrettanto cruciale, che spesso viene trascurato.

    Tutti noi tendiamo ad assumere la caffeina in dosi fisse, quasi per abitudine. Prendo i miei 200 mg e via.
    Ma in realtà dovremmo modulare la dose in base al nostro stato di eccitazione prima di assumerla.

    Mettiamo che normalmente, quando ti senti un po’ scarico, 200 mg funzionano alla grande. Bene.

    Ma se un giorno ti presenti in palestra già carico, agitato, pronto a spaccare il mondo — e ti spari comunque quei 200 mg solo perché “è la mia dose” — rischi di superare quella sottile linea oltre la quale l’eccitazione diventa controproducente. Non solo rovineresti la tua performance, ma probabilmente ti ritroveresti a gestire ansia, tachicardia e un senso di confusione

    In quelle condizioni, paradossalmente, sarebbe più sensato ridurre il dosaggio.
    Quando sei già molto eccitato di tuo, meno caffeina è meglio. Quando invece sei fiacco, hai bisogno di una spinta maggiore.

    E questo non è solo buon senso. Studi di McLellan e collaboratori lo dimostrano chiaramente: in condizioni di deprivazione del sonno, per esempio, i dosaggi più alti sono realmente necessari per sostenere le prestazioni cognitive.

    Se devi affrontare notti di studio, turni di lavoro infiniti o gare che ti tengono sveglio per due o tre notti consecutive, allora sì, ha senso assumere più caffeina — a patto che le dosi siano dilazionate nel tempo, e non assunte tutte insieme.

    Area cognitiva da migliorareDose di caffeina necessaria da riposatiDose di caffeina necessaria da privati dal sonno
    MgxkgMgxkg
    Tempo di reazione0,3-4,0 [1 ora prima del test]3,0-8,5 [1 ora prima del test]
    Vigilanza0,5-4,03,0-8,5 [ 1 ora  prima del test con la possibilità di ripetere con un’altra dose anche se minore]
    Attenzione0,3-5,5 [1 ora prima del test]2,5-8.0 [1 ora prima del test]
    Memoria acuta1,0-4,0 [risultati contrastanti]Sconosciuto
    Funzione esecutiva cognitiva0,7-5,5 [Dose più alta richiesta         per l’utente abituale.10,7 [2.7 ogni 2 ore per un totale 10,7 per massimo 3 notti]
    Da: McLellan, T. M., Caldwell, J. A., & Lieberman, H. R. (2016). A review of caffeine’s effects on cognitive, physical and occupational performance. Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 71, 294–312.

    Cuore ed effetti cardiovascolari

    Uno dei motivi principali di preoccupazione per chi consuma caffeina riguarda il suo possibile effetto sulla pressione arteriosa, sia sistolica che diastolica.

    È comprensibile: per chi non ha familiarità con i meccanismi fisiologici, l’idea che una sostanza possa aumentare la pressione non sembra certo rassicurante, soprattutto considerando che l’ipertensione è uno dei principali fattori di rischio per numerose malattie croniche nella società moderna.

    Oltre all’aumento pressorio, tra gli effetti collaterali più frequentemente segnalati troviamo anche alterazioni della frequenza cardiaca, con episodi di tachicardia — o talvolta bradicardia — a seconda del dosaggio e della sensibilità individuale.

    Ma da dove originano questi effetti?

    Alla base di tutto vi è il blocco dei recettori dell’adenosina A1 e A2A.
    Questa inibizione favorisce l’attivazione del sistema nervoso autonomo, in particolare del ramo simpatico, determinando un aumento del rilascio di catecolamine plasmatiche (come adrenalina e noradrenalina). È proprio questa maggiore attività simpatica a indurre la tachicardia e l’incremento della pressione sanguigna.

    C’è però una buona notizia:
    l’aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca indotto dalla caffeina è generalmente reversibile e temporaneo.
    Con il tempo, il corpo sviluppa una cosiddetta tolleranza agli effetti cardiovascolari della caffeina, riducendo o annullando queste risposte anche nei soggetti inizialmente più sensibili.

    Inoltre, una regolazione attenta del dosaggio consente di gestire facilmente questi effetti collaterali, evitando che diventino un vero problema.

    Vale la pena ricordare che la tolleranza non si sviluppa soltanto per gli effetti sul sistema cardiovascolare, ma anche rispetto alla tipica ansia, nervosismo e agitazione che alcune persone sperimentano ai primi approcci con dosi elevate.

    Insomma, niente panico.

    La letteratura scientifica esistente suggerisce che un consumo moderato di caffeina — nell’ordine di 400-600 mg al giornonon è associato a problematiche cardiovascolari nei soggetti sani.
    Questo vale anche per persone con insufficienza cardiaca stabile e per chi ha già una leggera ipertensione, purché si tratti di consumatori abituali e che assumano la caffeina in modo costante.

    Anzi, alcuni studi osservazionali hanno addirittura associato il consumo moderato di caffeina a una riduzione del rischio di malattie cardiovascolari.
    Un dato interessante, anche se va interpretato con la dovuta cautela: si tratta infatti di associazioni epidemiologiche, non di una prova causale definitiva.

    Studi clinici controllati hanno inoltre dimostrato che la gittata cardiaca, la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa, nei consumatori abituali di caffeina, non differiscono significativamente rispetto ai soggetti non consumatori.

    Tuttavia, è bene sottolineare che le persone con pre-ipertensione o ipertensione già diagnosticata sembrano mostrare una maggiore suscettibilità agli effetti acuti della caffeina, specialmente se non sono consumatori regolari.
    In questi casi, l’assunzione dovrebbe essere monitorata con maggiore attenzione, adattando eventualmente i dosaggi alle risposte individuali.

    Idratazione e diuresi

    Tra gli effetti più noti della caffeina — anche grazie alle infinite discussioni sul famoso “ammazzacaffè” — troviamo il suo presunto effetto diuretico.

    In effetti, l’assunzione di caffeina può aumentare la diuresi, sebbene i meccanismi alla base non siano ancora del tutto chiariti.

    Si ritiene che questo effetto possa derivare in parte dall’inibizione della fosfodiesterasi nei tubuli prossimali dei reni. Tuttavia, l’ipotesi più accreditata è che la caffeina agisca inibendo il riassorbimento di sodio nei tubuli prossimali e distali, aumentando così l’escrezione di soluti e, di conseguenza, quella di acqua libera.

    La domanda a questo punto è spontanea:
    possiamo davvero usare la caffeina come diuretico per combattere la ritenzione idrica?

    La risposta, con ogni probabilità, è no.
    Gli studi disponibili classificano l’effetto diuretico della caffeina come lieve: insufficiente a produrre cambiamenti significativi nella composizione corporea.

    La quantità di diuresi indotta è modesta, sebbene tenda a essere leggermente più elevata nelle donne.
    E se si osserva l’escrezione urinaria lungo l’intera giornata, la differenza di bilancio idrico risulta ancora meno rilevante.

    Non solo:
    l’effetto diuretico della caffeina diventa praticamente irrilevante se l’assunzione avviene in prossimità di un allenamento.
    Sembra infatti che l’esercizio fisico inneschi un effetto anti-diuretico, probabilmente mediato dall’attivazione simpatico-surrenale e dal rilascio di catecolamine, che favoriscono la ritenzione di liquidi.

    Se c’è un aspetto che merita invece attenzione, è la molteplice assunzione di caffeina nel corso della giornata, specie ad alti dosaggi.

    Questo tema è ancora oggetto di studio, ma una distribuzione eccessiva di caffeina durante l’arco delle 24 ore potrebbe alterare, in modo cumulativo, il bilancio idrico.

    In ogni caso, è importante sottolineare che:

    • Non esiste evidenza di una relazione diretta tra l’aumento del dosaggio di caffeina e l’intensità della diuresi.
    • Usare la caffeina con il solo scopo di migliorare la composizione corporea attraverso la diuresi è una strategia inefficace e non supportata dalla letteratura.

    Quindi, attenzione: aumentare inutilmente il dosaggio di caffeina nella speranza di “asciugarsi” di più non solo è inutile, ma potrebbe anche peggiorare altri parametri di salute e benessere.

    Sonno e ritmi circadiani

    Non è oro tutto ciò che luccica.
    Se finora abbiamo “emanato vibrazioni positive” — come direbbero i più giovani — ora è il momento di spostarsi su vibrazioni un po’ più… responsabilizzanti.

    Eh sì, perché quella che sembra una semplice conseguenza dell’assunzione di caffeina — la perdita di sonno dovuta alla maggiore attivazione simpatica — può, in realtà, avere effetti molto più profondi sulla salute di quanto si creda.

    Secondo un interessante articolo pubblicato nel 2018 sul Risk Management and Healthcare Policy, negli Stati Uniti la percentuale di adulti che dormono meno di sei ore per notte è aumentata dal 13% al 20% nel giro di soli dieci anni.

    Sebbene questa tendenza non possa essere imputata esclusivamente alla caffeina, è plausibile che il suo consumo eccessivo giochi un ruolo non trascurabile — anche se, va detto, questa rimane ancora una speculazione.

    Sempre lo stesso studio sottolinea un paradosso che, a prima vista, può sembrare banale, ma che in realtà merita una riflessione: la caffeina riduce la sensazione di affaticamento, ma può anche promuoverla.

    Come? Facciamo un esempio.

    Immagina Marco.
    Sono le otto di sera e comincia a sentirsi stanco. Per contrastare la sonnolenza, decide di assumere caffeina.

    Risultato? Marco posticipa l’orario di addormentamento.
    La mattina dopo si sveglia più stanco del solito. E cosa fa? Ricorre di nuovo alla caffeina per combattere la stanchezza.

    Se questo schema si ripete giorno dopo giorno, si crea un circolo vizioso che può facilmente trascinarsi avanti per mesi o addirittura anni.

    A peggiorare la situazione, c’è il fatto che, nel tempo, il corpo sviluppa tolleranza: Marco avrà bisogno di dosi sempre maggiori di caffeina per ottenere lo stesso effetto di vigilanza che una volta raggiungeva con dosaggi molto più bassi.

    Dal punto di vista biologico, la caffeina interferisce anche con uno dei principali regolatori del sonno: la melatonina.
    Diversi studi hanno mostrato che l’assunzione di caffeina durante il giorno riduce la produzione notturna di 6-sulfatoximelatonina, il principale metabolita della melatonina. Questo potrebbe essere uno dei meccanismi chiave con cui la caffeina, se non dosata correttamente, disturba la qualità e l’efficacia del sonno.

    Un trial clinico del 2013 ha evidenziato che 400 mg di caffeina possono influenzare negativamente il sonno anche se assunti fino a sei ore prima di coricarsi.

    Questo dato sottolinea quanto sia importante non solo quanto caffè o caffeina assumiamo, ma anche quando lo facciamo.

    E i danni non si fermano qui.

    Studi sperimentali hanno dimostrato che privarsi anche solo di 90 minuti di sonno può ridurre la vigilanza diurna fino a un terzo — un calo che, in termini pratici, può tradursi in perdita di lucidità, difficoltà decisionali e riduzione generale delle prestazioni.
    Tra le conseguenze si annoverano: minori capacità cognitive, peggioramento della capacità di pianificazione, maggiore propensione al rischio, alterazioni negli stili di leadership, e persino — forse — una riduzione della creatività.

    Probabilmente non avevi mai sentito parlare di comportamento alterato dovuto alla privazione di sonno.
    Forse pensavi solo di “affievolirti” un po’, ma difficilmente immaginavi che anche la tua capacità di prendere decisioni potesse peggiorare… e invece sì, succede proprio così.

    Il motivo è semplice: la privazione di sonno altera il funzionamento della corteccia prefrontale, l’area del cervello associata al controllo esecutivo del comportamento.

    Tutto questo è strettamente correlato a un aumento degli incidenti automobilistici, degli infortuni sul lavoro, e persino alla difficoltà nel riconoscere correttamente le espressioni facciali delle altre persone. Ci avresti mai creduto?

    A questi effetti si sommano altre conseguenze, alcune più documentate di altre, come:

    • aumento della pressione arteriosa,
    • emicranie,
    • alterazione dell’omeostasi del glucosio,
    • peggioramento del benessere generale,
    • esacerbazione di numerose patologie preesistenti.

    La ricerca citata in precedenza evidenzia anche un altro aspetto cruciale: le informazioni su sonno e caffeina vanno approfondite.
    Si parla infatti della pervasività della caffeina nella dieta moderna a livello globale come possibile fattore confondente.
    Pensateci: quanto è difficile oggi trovare qualcuno che non consuma affatto caffeina? È presente non solo nel caffè, ma anche nella cola, nel tè, negli energy drink… una vera e propria invasione silenziosa.

    La review di Clark et al., 2016 sottolinea che esiste una relazione tra sonno disturbato e consumo di caffeina, anche quando l’assunzione avviene parecchie ore prima di coricarsi, e con dosaggi simili a quelli mediamente consumati dalla popolazione (che in realtà è molto variabile).

    Nelle stesse conclusioni viene riportato che l’assunzione di 1-2 espressi anche 16 ore prima può alterare l’elettroencefalogramma, influenzando così la qualità del sonno.

    Nonostante tutto questo, lo studio sottolinea che il consumo di 3-4 caffè al giorno non è associato a rischi cronici per la salute — un dettaglio poi confermato anche da autorevoli documenti accademici successivi.

    L’uso abituale di caffeina, come saprete, induce tolleranza, riducendone progressivamente gli effetti stimolanti.
    Tuttavia, anche nei soggetti tolleranti, la caffeina potrebbe continuare a ledere la qualità del sonnosenza che ce ne si renda conto.

    Gli individui tolleranti, infatti, potrebbero percepire meno l’impatto negativo sul sonno, ma attenzione: altri fattori come sesso, peso corporeo e genetica giocano un ruolo fondamentale nel determinare la qualità del riposo notturno.

    Analizzando i dati a disposizione, emerge quindi che la caffeina può interferire sul sonno soprattutto in acuto, ma anche in cronico potrebbe risultare problematica.
    Se l’obiettivo è rimanere svegli in una situazione occasionale, l’uso della caffeina è assolutamente lecito e non presenta particolari problemi.
    Ma se il consumo diventa cronico, allora è tutta un’altra storia.

    In questo caso, per ridurre i rischi, bisogna:

    • assicurarsi di dormire almeno 7 ore a notte,
    • anticipare il più possibile l’assunzione della caffeina durante la giornata.

    Linee guida precise ancora non esistono, vista l’eterogeneità delle evidenze disponibili.


    Tuttavia, un trial del 2013 suggerisce di non assumere caffeina dopo le 17:00, proponendo un margine di sicurezza di 6-10 ore tra l’assunzione e il momento in cui si va a dormire.


    Come avrete capito, estrapolare regole ferree da questi studi non è semplice, ma la prudenza è sempre una buona strategia.

    Per chi sospetta di dormire male, o semplicemente desidera monitorare il proprio sonno, consiglio di compilare un diario del sonno.

    Un valido esempio è disponibile qui:

    👉 Sleep Diary della Sleep Foundation

    In alternativa, cercando su Google “diario del sonno” si trovano molte risorse utili in italiano.

    Attenzione però: questi dati vanno sempre interpretati con l’aiuto di un medico.
    Oltre al diario, esistono anche questionari del sonno che il vostro medico saprà sicuramente indicarvi.

    Se invece avete già la certezza di soffrire di insonnia, la prima strategia dovrebbe essere ridurre gradualmente il dosaggio di caffeina, cercando di limitarsi alla sola assunzione mattutina.
    Se nemmeno così la situazione migliora, allora si potrebbe valutare una sospensione progressiva della caffeina.

    Esercizio fisico

    Nel 1907, mentre il mondo si preparava ad affrontare anni complessi, una scoperta silenziosa iniziava a rivoluzionare il mondo dello sport: la caffeina era in grado di migliorare le prestazioni di endurance. La regina degli psicotropi entrava così ufficialmente nella lista delle sostanze ergogeniche.

    Non molti lo ricordano, ma per decenni la caffeina è stata considerata una sostanza dopante.

    Fino al 2004, concentrazioni superiori a 12 μg/mL nelle urine comportavano la squalifica per gli atleti. Oggi la caffeina non è più vietata, ma è ancora sotto osservazione, essendo inserita nel programma di monitoraggio della WADA. Chi compete deve quindi mantenersi aggiornato, perché le regole possono cambiare rapidamente da una stagione all’altra.

    Inizialmente si pensava che i benefici della caffeina derivassero dal risparmio del glicogeno muscolare, favorito da un maggior rilascio di acidi grassi liberi.
    Col tempo, però, questa teoria venne superata. Oggi si riconosce che il principale meccanismo attraverso cui la caffeina migliora la performance è l’inibizione dei recettori dell’adenosina A1 e A2A nel sistema nervoso centrale, aumentando così l’attivazione neuronale e la percezione di energia.

    Ciò che si osserva più frequentemente nei soggetti che assumono caffeina è una maggiore tolleranza al dolore fisico e una ridotta percezione della fatica. A dosaggi più elevati, superiori ai 400 mg, si registra anche un aumento del rilascio di calcio intracellulare, fenomeno che può migliorare l’efficienza del processo di accoppiamento eccitazione-contrazione nelle fibre muscolari.

    A questi vantaggi fisici si sommano benefici cognitivi evidenti: maggiore vigilanza, attenzione e reattività mentale, qualità fondamentali non solo per gli sportivi, ma anche per i militari in contesti operativi.

    Tuttavia, non tutti rispondono alla caffeina nello stesso modo. Il legame tra assunzione di caffeina ed effetto ergogenico dipende da molteplici variabili, come il dosaggio, il livello di allenamento, il momento di assunzione, il sesso, la presenza di abitudine o astinenza da caffeina.

    Esistono anche i cosiddetti no responder: soggetti che, pur assumendo caffeina, non sperimentano miglioramenti prestazionali. Se rientri tra questi, non è che il tuo corpo stia mandando un messaggio universale: semplicemente, appartieni a una categoria biologicamente meno sensibile.

    Negli studi scientifici, la caffeina viene solitamente assunta circa un’ora prima dell’attività fisica, raggiungendo il picco di efficacia tra trenta minuti e tre ore. Il dosaggio efficace si colloca generalmente tra 3 e 9 mg per chilogrammo corporeo; sotto i 3 mg/kg, l’effetto ergogenico si riduce sensibilmente. Con un dosaggio moderato, intorno ai 5 mg/kg, l’effetto può mantenersi per diverse ore.

    L’uso cronico di caffeina può modificare la risposta dell’organismo, e anche l’esercizio fisico gioca un ruolo importante. Durante l’attività fisica, infatti, si abbassa la soglia di sensibilità dei recettori dell’adenosina, rendendo la caffeina più efficace. In pratica, 200 mg di caffeina potrebbero risultare poco efficaci a riposo, ma avere effetti molto più marcati durante l’esercizio fisico.

    Questo principio non è banale: l’assorbimento e l’efficacia di una sostanza non dipendono solo dal fatto di essere a stomaco vuoto o pieno, ma da numerosi fattori metabolici.

    Un’alternativa al classico schema di assunzione un’ora prima della gara è l’assunzione della caffeina durante il riscaldamento o immediatamente prima dell’inizio dell’attività. Anche in questo caso, la risposta varia da individuo a individuo, rendendo fondamentale una fase di sperimentazione personale.

    Inoltre, il momento del pasto incide sull’assorbimento della caffeina: a stomaco vuoto l’assorbimento è più rapido e l’effetto ergogenico può risultare maggiore, mentre dopo un pasto abbondante l’effetto può attenuarsi.

    Alcune ipotesi, ancora da confermare pienamente, suggeriscono che la caffeina possa esercitare effetti più marcati sugli atleti addestrati rispetto ai principianti. Anche se la letteratura in merito è ancora parziale, il dato appare interessante per chi si allena regolarmente.

    Non è solo la resistenza aerobica a beneficiare della caffeina. Le prove oggi disponibili indicano che l’assunzione di caffeina può migliorare anche la forza massimale, come il classico test del one-repetition maximum (1RM), e la potenza muscolare.

    Pur se il corpo di studi a supporto delle prestazioni anaerobiche è meno esteso rispetto a quello sulla resistenza, i risultati sono comunque promettenti. Una meta-analisi pubblicata sul Journal of the International Society of Sports Nutrition, che ha analizzato dieci studi, ha evidenziato che la caffeina può migliorare forza e potenza con effetti di lieve o moderata entità.

    Un risultato apparentemente modesto, che tuttavia non deve trarre in inganno: nel contesto agonistico, anche piccoli miglioramenti possono essere determinanti.

    Un incremento minimo, sommato ad allenamento, recupero e alimentazione adeguata, può fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Ed è proprio qui che si comprende il valore reale della buona supplementazione: piccoli guadagni, costanti e strategici, che nel tempo costruiscono l’eccellenza.

    I meccanismi attraverso cui la caffeina migliora la forza sono diversi: oltre alla riduzione dello sforzo percepito e della percezione del dolore, contribuisce a incrementare lo stato di eccitazione mentale e a migliorare il reclutamento delle unità motorie. Una review pubblicata su Sports Medicine nel 2018 conferma che i dosaggi efficaci si collocano tra i 3 e i 9 mg/kg corporeo, anche se rimane aperto il dibattito su quale possa essere il dosaggio minimo ottimale.

    Dimagrimento

    Quando pensiamo alla caffeina, il primo pensiero va spesso al suo potere di tenerci svegli o darci una sferzata di energia.
    Ma pochi si soffermano a chiedersi se — e in che modo — questa sostanza possa influenzare anche il nostro percorso di dimagrimento.

    Come spesso accade nel mondo della nutrizione e della farmacologia, le cose non sono mai semplici come sembrano. Gli integratori, così come molti farmaci, possono agire su un obiettivo attraverso strade diverse: a volte in modo diretto, intervenendo sui processi fisiologici specifici, altre volte in modo indiretto, modificando comportamenti o sensazioni che finiscono per incidere sul risultato finale.

    La caffeina non fa eccezione.

    Una parte dei suoi effetti sul dimagrimento si deve a quello che accade “dietro le quinte”: il suo impatto sul sistema nervoso centrale, sulla mente, sull’energia percepita, sulla voglia di muoversi o di allenarsi.
    È proprio da qui che dobbiamo partire se vogliamo capire davvero quale ruolo può giocare questa sostanza nel nostro obiettivo di perdere peso.

    Come?
    La caffeina è potenzialmente in grado di motivarci di più, rendendoci più vigili, più propensi a rispettare una dieta, e magari anche più determinati a completare quell’ultimo set in palestra o quei dieci minuti in più di allenamento o di attività sportiva.

    Ma esiste anche un meccanismo diretto, ed è collegato a quanto abbiamo già “studiato” in precedenza: l’aumento dell’eccitabilità del sistema nervoso simpatico (SNS).

    Il sistema nervoso simpatico è una componente fondamentale nel mantenimento dell’omeostasi energetica (cioè l’equilibrio tra energia assunta e consumata) attraverso un duplice controllo: quello neurale (mediante la regolazione diretta del sistema nervoso) e quello ormonale (tramite il rilascio di ormoni come adrenalina e noradrenalina).

    Una stimolazione adeguata del sistema nervoso simpatico produce diversi effetti favorevoli per il dimagrimento:

    • Aumento della spesa energetica
    • Riduzione della fame
    • Miglioramento della sazietà

    Va detto che questi effetti non si verificano “con uno schiocco di dita”: l’attivazione del SNS innesca una cascata complessa di reazioni endocrine e nervose, tutte fondamentali per il mantenimento dell’equilibrio energetico.

    A questo punto la domanda è d’obbligo: si può davvero dimagrire grazie alla caffeina?
    Cosa ci dicono gli studi?

    Diversi studi sperimentali hanno confermato un aumento del dispendio energetico associato alla caffeina.
    Uno studio condotto da Leblanc et al. su otto maschi allenati e otto maschi non allenati ha evidenziato, oltre a un aumento del metabolismo, anche un aumento del rilascio di acidi grassi liberi plasmatici (FFA, ossia fatty acids liberi nel sangue) e una riduzione del quoziente respiratorio (RQ, cioè il rapporto tra ossigeno consumato e anidride carbonica prodotta), indicatore di un maggiore utilizzo dei grassi come fonte di energia.

    Un altro studio, su un campione di 14 uomini allenati e 10 non addestrati, ha riscontrato risultati simili. Tuttavia, tra i due studi emerge una discrepanza: nel primo, il metabolismo basale aumentava di più nei soggetti allenati, mentre nel secondo lo stesso aumento si osservava nei soggetti non allenati.

    Gli autori della review che ha analizzato questi dati hanno avanzato un’ipotesi per spiegare questa incongruenza: l’assenza di un protocollo a doppio cieco, un elemento metodologico che spesso influenza l’affidabilità dei risultati.
    E come spesso succede nella scienza, dobbiamo accettare ciò che “ci passa il convento”.

    Un altro studio ha poi investigato gli effetti della combinazione caffeina + esercizio fisico confrontata con il solo esercizio fisico.
    Come era prevedibile, la combinazione ha prodotto un dispendio energetico maggiore. Tuttavia, va precisato che nella pratica l’incremento, pur essendo reale, risulta comunque modesto.

    A questi dati “cauti” si aggiunge un altro aspetto interessante: nello stesso studio si è osservato che la caffeina è in grado di ridurre la fame, contribuendo così a un potenziale calo dell’apporto calorico.

    Infine, la review propone anche un possibile meccanismo biologico a supporto di questi effetti: l’assunzione di caffeina aumenta le catecolamine (come adrenalina e noradrenalina), che favoriscono il rilascio di acidi grassi liberi (FFA) dagli adipociti (le cellule di grasso) e stimolano l’aumento dell’espressione delle UCPs (uncoupling proteins, proteine che dissipano energia sotto forma di calore), incrementando così la termogenesi (produzione di calore metabolico).

    Questi dati, supportati da studi pre-clinici, suggeriscono che l’effetto della caffeina sul metabolismo e sulla gestione del peso sia reale, seppure modulato da molti fattori individuali.

    La fame

    La caffeina, come abbiamo visto, contribuisce già ad aumentare la spesa energetica.

    Ma davvero vogliamo fermarci qui?
    In realtà, questa sostanza sembra offrire ancora qualcosa in più: potrebbe infatti favorire il senso di sazietà e ridurre l’appetito, qualità che diventano preziosissime in un regime ipocalorico, quando si combatte quotidianamente contro le morse della fame.

    Il meccanismo attraverso cui la caffeina eserciterebbe questo effetto anoressigeno è stato inizialmente attribuito alla consueta stimolazione del sistema nervoso simpatico. Tuttavia, uno studio pre-clinico ha sollevato nuovi interrogativi: il simpatico potrebbe non essere l’unico responsabile di questo effetto, lasciando intravedere meccanismi più complessi.

    Molti degli studi sulla sazietà sono stati condotti utilizzando integratori noti per il loro effetto anoressizzante, come nicotina, peperoncino rosso tritato, fibre solubili e catechine, ottenendo risultati molto positivi.

    Un esempio interessante riguarda la nicotina: si è visto che il suo effetto anoressizzante viene amplificato dalla caffeina.
    Chi ha avuto esperienze con il fumo, soprattutto nelle fasi iniziali, conosce bene questa sensazione di riduzione dell’appetito. Non a caso, uno dei timori legati alla cessazione del fumo è l’eventuale aumento di peso — tema che affronteremo meglio nei capitoli successivi.

    Al di là delle sinergie con altri composti, esistono anche studi che si concentrano esclusivamente sulla caffeina.
    Alcune ricerche hanno evidenziato che l’assunzione di caffeina può aumentare la secrezione di serotonina plasmatica e ridurre i livelli di grelina, l’ormone chiave nella stimolazione della fame.
    Questi cambiamenti nei biomarcatori biologici supporterebbero l’ipotesi di una diminuzione della voglia di cibo indotta direttamente dalla caffeina.

    Tuttavia, come spesso accade nella letteratura scientifica, non tutti gli studi sono concordi.
    Ad esempio, un lavoro di Greenberg JA, pubblicato nel 2012, ha evidenziato che la caffeina disciolta in acqua, rispetto al caffè decaffeinato, ha prodotto risultati inferiori in termini di soppressione dell’appetito.
    Un dato interessante che invita a considerare come anche altri componenti del caffè — oltre alla sola caffeina — possano avere un ruolo nei meccanismi anoressizzanti.

    Viene allora spontaneo chiedersi: la caffeina può aiutare a mantenere il peso perso dopo una dieta?
    Domanda a trabocchetto, perché in realtà la risposta sembra essere sì.

    Uno studio del 2015, finanziato dal Ministero Federale dell’Educazione e della Ricerca in Germania, ha osservato che i soggetti che assumevano caffeina riacquistavano meno peso nel periodo successivo alla dieta rispetto a chi non ne faceva uso.

    Questi risultati trovano conferma anche nella revisione sistematica con meta-analisi condotta da Tabrizi e colleghi, che riporta conclusioni simili:
    la caffeina sembra effettivamente funzionare come supporto nel mantenimento del peso corporeo dopo una fase di dimagrimento.

    Il paradosso della tolleranza

    Durante questo viaggio nel mondo della caffeina vi ho parlato più Si parla spesso di “tolleranza” alla caffeina, ma che cosa significa davvero tollerare questa sostanza?

    In termini semplici, la tolleranza si manifesta quando l’effetto della caffeina, a parità di dosaggio, risulta marcatamente ridotto.
    Per ottenere lo stesso stimolo che si aveva all’inizio, oppure per raggiungere livelli di intossicazione, diventa necessario assumere quantità più elevate di caffeina.

    Chi studia o pratica sport ad alti livelli avrà sicuramente sperimentato questo fenomeno sulla propria pelle, ma non è un’esperienza riservata a pochi: anzi, una buona fetta della popolazione mondiale sviluppa inconsapevolmente una tolleranza crescente.

    Tutti iniziano con una tazzina di caffè al giorno per godere di quella lieve carica, di quella piacevole euforia tipica della caffeina.
    Poi una tazzina non basta più.
    Se ne aggiunge una seconda, poi una terza, poi una quarta, e così via… fino ad arrivare a consumare anche otto o dieci tazzine al giorno.

    Pensate che si racconta che lo scrittore Honoré de Balzac, durante il periodo di stesura della monumentale opera La Comédie humaine, arrivasse a consumare circa 50 tazzine di caffè al giorno.
    Non sappiamo con certezza quanta caffeina contenesse una tazzina dell’epoca, ma con le concentrazioni moderne Balzac avrebbe ingerito l’equivalente di circa 4 grammi di caffeina al giorno: una quantità non solo esageratamente costosa, ma anche estremamente rischiosa per la salute.
    Ricordiamo che in letteratura medica sono documentati casi di morte da overdose di caffeina.

    Da un certo punto di vista, costruire una tolleranza può sembrare positivo: ad esempio, con l’aumentare della tolleranza si riducono gli effetti collaterali cardiovascolari (come tachicardia) e quelli ansiosi spesso associati all’assunzione acuta di caffeina.
    Tuttavia, non sappiamo con certezza quali effetti positivi rimangano attivi in presenza di una tolleranza marcata.

    La buona notizia è che si ritiene che gli effetti neuroprotettivi e anti-diabetici della caffeina potrebbero persistere anche in soggetti abituati all’assunzione cronica.

    La parte meno confortante riguarda invece l’ambito della performance fisica: i benefici ergogenici della caffeina sembrano affievolirsi con l’uso prolungato.
    In passato si pensava che questi effetti si mantenessero inalterati, ma una pubblicazione del 2019 ha messo in discussione questa certezza.

    In questo studio, dopo venti giorni consecutivi di assunzione di caffeina, gli effetti positivi erano ancora presenti, ma fortemente ridotti rispetto all’inizio.

    Ulteriori conferme arrivano da studi di imaging, in particolare utilizzando la tecnica PEPSI (Proton Echo-Planar Spectroscopic Imaging), una metodica di risonanza magnetica che permette di misurare specifici metaboliti cerebrali.
    In uno studio interessante, sono stati somministrati 10 mg/kg di caffeina a due gruppi: uno composto da soggetti senza tolleranza alla caffeina, e uno da soggetti abituali consumatori.

    Dopo un’ora, i soggetti non tolleranti mostravano livelli di lattato cerebrale (una fonte di energia importante per il cervello) più elevati rispetto ai soggetti tolleranti.
    Tuttavia, dopo un periodo di “scarico” (cioè sospensione della caffeina) di 4-8 settimane, anche i soggetti precedentemente tolleranti recuperarono la stessa risposta in termini di aumento del lattato.

    Secondo i ricercatori, questa evidenza fornisce un’ulteriore prova che l’efficacia della caffeina diminuisce nel tempo con l’uso continuativo, ma può essere recuperata attraverso periodi di sospensione.

    Ed eccoci arrivati a un concetto chiave: la ciclizzazione della caffeina come strategia per contrastare la costruzione della tolleranza.

    Il concetto di ciclizzazione si basa su un principio semplice: alternare periodi di assunzione a periodi di sospensione, per mantenere il più possibile l’efficacia della sostanza.
    Un metodo pratico prevede di iniziare con 200 mg di caffeina al giorno, incrementando gradualmente fino a 600–800 mg, per poi procedere a uno scarico completo.

    Sebbene questo metodo sia utilizzato da alcuni atleti e studenti durante periodi particolarmente intensi (come esami universitari o gare sportive), va detto con chiarezza:
    non esiste letteratura scientifica che ne confermi l’efficacia o, soprattutto, la sicurezza a lungo termine.

    Inoltre, bisogna considerare che mantenere dosaggi elevati di caffeina per settimane può essere problematico, specialmente per chi è suscettibile agli effetti collaterali come ansia, tachicardia o insonnia.
    In situazioni di particolare stress — come durante una dieta ipocalorica o sessioni d’esame — forzare il sistema nervoso con alte dosi di caffeina potrebbe risultare controproducente, se non addirittura pericoloso.

    Un’alternativa più conservativa consiste nel trovare un dosaggio ottimale stabile (ad esempio 400 mg al giorno) e mantenerlo per circa 20–25 giorni, ovvero il tempo dopo il quale gli effetti della caffeina tendono a calare sensibilmente.
    Dopodiché, si procede a una sospensione totale della caffeina per almeno due settimane, per consentire al sistema nervoso di “resettarsi”.

    Naturalmente, va ricordato che la sospensione brusca della caffeina può provocare sintomi di astinenza: mal di testa, irritabilità, sonnolenza, difficoltà di concentrazione.
    Per minimizzare questi disagi, è consigliabile procedere con una riduzione graduale del dosaggio.

    Un possibile protocollo di disintossicazione potrebbe essere:

    • Settimana 1: 400 mg al giorno
    • Settimana 2: 300 mg al giorno
    • Settimana 3: 200 mg al giorno
    • Settimana 4: 100 mg al giorno

    Lo stesso approccio può essere applicato anche al consumo di caffè: si possono ridurre progressivamente il numero di tazzine settimanali, anziché sospendere bruscamente.

    Sembra banale, ma spesso proprio chi è abituato a consumare caffeina quotidianamente sottovaluta questi aspetti, ritrovandosi a vivere sintomi di astinenza che trasformano una semplice sospensione in un vero e proprio calvario.

    Conclusioni:

    Lo scetticismo verso il caffè, e con esso verso la caffeina, ha radici antiche.
    Correva l’anno 1771 in Svezia, quando il re Gustavo III decise di condurre una sorta di “studio sperimentale” che oggi definiremmo — senza troppi giri di parole — “alla buona”.

    Il re prese due ergastolani, che avevano la particolarità di essere gemelli, e impose loro una curiosa routine quotidiana: uno doveva bere tre tazze di caffè al giorno, l’altro tre tazze di tè.
    Alla fine, a sopravvivere più a lungo fu proprio colui che beveva il tè, raggiungendo l’età di 83 anni.
    Dell’altro fratello, stranamente, non ci è stato tramandato il destino.
    Tuttavia, malgrado l’esperimento — condotto con tutti i limiti che possiamo immaginare — non si registrarono prove concrete di effetti dannosi causati dal caffè.

    Ovviamente questo aneddoto ha un tono goliardico, e non è certo da qui che derivano i dubbi storici intorno al caffè e alla caffeina.
    Se così fosse, possiamo serenamente dire che ci si sarebbe sbagliati… e anche di molto!

    Oggi la ricerca moderna è infatti piuttosto chiara su questo punto: la caffeina, nel lungo termine, non solo non sembra dannosa, ma in alcuni casi potrebbe addirittura svolgere un ruolo protettivo verso determinate patologie.

    Questo non significa che non esistano delle ombre.
    Le principali preoccupazioni non riguardano tanto la salute cardiovascolare o il rischio di malattie croniche — dove, anzi, i dati sono generalmente rassicuranti — quanto piuttosto il suo effetto sul sonno, un ambito su cui la letteratura scientifica mostra risultati più contrastanti.

    D’altra parte, parlando di performance, sia sportive che cognitive, i benefici della caffeina sono tra i più solidamente documentati in tutta la ricerca sugli integratori.

    Più sfumate sono invece le evidenze quando si tratta di dimagrimento e controllo della fame: qui i dati sono meno consistenti, anche se ciò non toglie che la caffeina possa rappresentare un aiuto valido all’interno di un piano di perdita di peso ben strutturato.

    Va però ribadito che quando parliamo della sicurezza e degli effetti della caffeina, ci riferiamo sempre a popolazioni adulte in condizioni fisiologiche.
    I discorsi cambiano — e anche molto — quando entriamo in target più delicati come i bambini o le donne in gravidanza, situazioni che richiedono attenzione specifica.

    La caffeina, insomma, non è un miracolo né un nemico, ma uno strumento: potente, versatile, a volte sottovalutato, a volte sopravvalutato, che richiede conoscenza, buon senso e una valutazione attenta del contesto in cui viene utilizzato.

    E come sempre accade con gli strumenti potenti, tutto dipende da come decidiamo di usarlo.